A cura di Massimo Guastella

Il linguaggio pittorico utilizzato da Milot, allorquando immigrato dall’Albania raggiungeva le coste italiane nel 1991, era pienamente figurativo. Tuttavia nel soggiorno italiano, la formazione accademica a Brera e i nuovi circuiti artistici frequentati non hanno lasciato traccia alcuna di produzioni iconiche, preso com’era a rinnovare i suoi modi. Affatto Milot si fa conoscere per una pittura, svincolata da dipendenze figurative, in una fase che andrebbe considerata una sorta di purificazione dall’immagine realista e popolare, retorica e svuotata di impulsi creativi innovatori, imposta nelle scuole artistiche comuniste albanesi.
Perciò volge l’attenzione verso una resa informale, rigorosamente costruita nel concepimento di spazi e forme, di cui sono protagonisti materia e colore. Si accosta alle poetiche dell’espressionismo astratto. Energia e potenza delle paste cromatiche, coagulate, si concentrano sullo spazio piano delle tele come un tegumento protettivo. Al di sotto covano spinte pronte a diramarsi, evocando flussi vitali, già intravedibili nei movimenti aggallanti, in uno scambievole rapporto tra superficie e profondità. Un modo di non disperare ma nutrire la speranza, una proiezione del vissuto e delle attese per il futuro, effetto della natura dirompente e attiva dell’artista albanese. Con queste cifre Milot consolida la sua personalità artistica, notoria e documentata criticamente. Tuttavia sotto la polvere del misconosciuto trascorso giovanile rimette a lustro quegli elementi figurativi da cui s’era voluto liberare, per un più rispondente recupero linguistico da affiancare alle stesure informali di colore. Sulle tele configura, posizionati discretamente tra le pennellate cromatiche, taluni reperti di statuaria greca. Questo momento, nuovo, segna un importante ritorno alle culture delle origini, a quella pressoché ignorata del patrimonio archeologico in terra albanese. Inoltre nei progetti installativi coniuga antico e tradizioni popolari contadine. Nelle antiche superstizioni, nelle usanze rurali albanesi, i contadini dopo aver lavorato il terreno, scenario di una vita di stenti e di fatica, fissavano, perpendicolarmente al campo, il manico di legno degli attrezzi agricoli, e sopra vi ponevano un secchiello, a mo’ di spaventapasseri, quale oggetto apotropaico, che allontanasse gli spiriti maligni. Sotto quel terreno v’erano le testimonianze della storia ellenica, azzerata ai tempi del regime; elementi di connessione tra la gente d’Albania e l’intera civiltà del Mediterraneo, di cui le sponde d’oltreadriatico costituiscono territorio, a pieno titolo, integrante. Su questi ricordi Milot assembla materiali plebei, recuperati esteticamente, per installazioni plastico-pittoriche, entro cui inserisce l’elemento figurativo. Sceglie le teste dissaldate dalle statue greche, i volti delle divinità femminili, Veneri di una bellezza canonica, sepolte per secoli sottoterra, come quelle disseminate nei territori greci e magnogreci. Le dee pagane venerate, in quell’Angolo Mediterraneo, che è l’Albania, rappresentano una preziosa attestazione di omogeneità culturale che l’artista restituisce per riconoscenza al mondo occidentale contemporaneo, che lo ha affettuosamente accolto, nel grande esodo di fine Millennio.